The Shining (hacker vs cracker): la luccicanza non si compra su Amazon
Rumore di Fondo - E15S03
Rumore di Fondo E15S03 - The Shining (hacker vs cracker): la luccicanza non si compra su Amazon
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digital strategist, retrogamer, programmatrice COBOL, diabetica, cucino e parlo giapponese, ho scritto libri, ho visto cose, frequento gente discutibile
E15S03:
The Shining (hacker vs cracker): la luccicanza non si compra su Amazon
The Shining (hacker vs cracker): la luccicanza non si compra su Amazon
C’era un tempo in cui la parola hacker aveva un’aura mistica. Non era un titolo che potevi auto-attribuirti solo perché avevi scaricato Kali Linux su una chiavetta USB o perché ti eri visto un paio di video su YouTube. Essere hacker era una chiamata, una di quelle robe che o hai la luccicanza (cit. Gianluca) o non ce l’hai.
Gli hacker erano i buoni, i Gandalf del cyberspazio. Non rubavamo carte di credito né vendevamo database sul dark web: esploravamo. Come Indiana Jones davanti a un tempio abbandonato, entravamo nei sistemi per vedere “come funzionano le cose”. Lo facevamo di notte, con un modem gracchiante da 14.4 kbps, quando i log di sistema erano scritti pure in COBOL e i sysadmin dormivano sonni relativamente tranquilli.
I cracker, invece, erano l’altra faccia della medaglia: quelli che rompevano per distruggere o per lucro, i Biff Tannen1 del cyberspazio. Dove l’hacker vedeva un enigma da risolvere, il cracker vedeva una serratura da scassinare. Ed è lì che il termine “hacker” ha iniziato a sporcarsi, ad assumere sfumature che non ci appartenevano.
I pionieri della luccicanza
Chi c’era ricorda i nomi. Kevin Mitnick, il “most wanted” dell’FBI, accusato di aver violato DEC, Motorola e mezzo mondo a colpi di ingegneria sociale. Era temuto, idolatrato, demonizzato: il Darth Vader dell’hacking. Ma Mitnick era solo la punta dell’iceberg.
C’erano figure come Richard Stallman, il paladino del software libero, che usava la tastiera come Excalibur per difendere la condivisione del sapere. O Eric S. Raymond e la sua “Cattedrale e il Bazaar”, che ha fatto da Bibbia per l’open source. O ancora Bruce Schneier, che ha insegnato al mondo che la crittografia non è magia nera, ma scienza applicata alla libertà.
Questi non erano “ladri digitali”: erano architetti del cyberspazio. E dietro di loro, intere generazioni che hanno firmato il Manifesto Hacker di The Mentor (1986) come fosse un giuramento:.
«Noi esploriamo, e voi ci chiamate criminali.
Noi cerchiamo conoscenza, e voi ci definite vandali.»
Era la dichiarazione di indipendenza di chi vedeva i computer non come macchine da ufficio, ma come porte dimensionali verso un nuovo universo.
Hollywood, i media e gli “script kiddies”
Poi arrivarono i media. Con le copertine allarmistiche: “Gli hacker possono spegnere le centrali elettriche!” “Gli hacker rubano i tuoi soldi online!” – ogni volta che c’era un blackout, c’era sempre “un hacker” dietro. Hollywood mise il carico: WarGames ci rese adolescenti terroristi nucleari, Hackers ci bollò come disadattati fashion-victim, Matrix ci diede i trench neri ma ci tolse la credibilità - eppure lo guardavamo lo stesso, perché ci riconoscevamo in quella tribù.
E così il termine “hacker” è diventato sinonimo di “pirata”, fino a essere usato dai giornali per descrivere il ragazzino che buca il server della scuola con una password di default. Gente che non ha mai scritto una riga di codice, ma si vanta perché ha scaricato un exploit già pronto da GitHub: i famigerati script kiddies.
Sono loro i veri cracker travestiti: i “pischellini che rompono le cose” e poi si fanno chiamare hacker. Come quei cugini che prendevano i nostri Lego Technic, li smontavano a caso e poi lasciavano i pezzi sparsi sul tappeto.
Il ricordo del cameratismo
Era un’altra storia. Il floppy passato di mano come fosse il Sacro Graal, le notti davanti a un terminale verde fosforo, i nickname sui BBS, gli “handshake” segreti via IRC.
C’era il cameratismo, la sensazione di appartenere a un’élite non per soldi o potere, ma per curiosità. Un po’ come i Ghostbusters che si passano lo zaino protonico: nessuno capiva davvero come funzionasse, ma sapevi che con quello avresti potuto fermare Gozer.
La vera differenza
Oggi chiunque può “hackare” (mi rifiuto di usare il verbo “hackerare”) un account con due click e un tutorial. Ma quella non è la luccicanza. Quella è la versione fast-food dell’hacking, un surrogato industriale.
La vera differenza tra hacker e cracker non sta nei tool, ma nello spirito: curiosità contro avidità, esplorazione contro vandalismo, creatività contro shortcut.
Per questo, ogni tanto, vale la pena ricordarlo: non eravamo vandali digitali, eravamo archeologi del cyberspazio. E la nostra fedeltà era solo a una cosa: la conoscenza.
È che ancora mi disturba sentire che ci sono “gli hacker che hanno attaccato le centrali e sabotato le scuole”, non si può ridurre tutto a questo. Dietro c’è ricerca e sofisticazione, molto più di quello che si può scrivere.
E se avete voglia, se siete in quel di Val Mara (Melano, Svizzera), vi consiglio la mostra “CTRL+Cinema: i computer dentro e fuori lo schermo” dove i vintage computer incontrano quello che il cinema di SciFi ci avrebbe anticipato.



se non sai chi è Biff: https://en.wikipedia.org/wiki/Biff_Tannen

